Vajont , una strage di Stato da reinterpretare


  • Il 9 ottobre 2013 saranno passati  50 anni. Sul Vajont sono state scritte tante cose, ma ancora manca una lettura che inquadri nella situazione italiana del dopoguerra le ragioni strategiche di quella scelta sciagurata. Un genocidio annunciato, voluto  e perseguito contro ogni logica  in nome del “progresso”. Oggi sappiamo quasi tutto sui fatti ( basta voler informarsi ), ma per molti media il cinquantesimo anniversario di questa tragedia sarà solo occasione di lacrime di coccodrillo e di esibizione di buoni sentimenti.  La vera domanda sul dopo Vajont rimane “come è stato possibile far sparire dalla coscienza collettiva le ragioni di una strage con duemila morti” ? E senza individuarne realmente le responsabilità ? 

    quella_del_vajont_g-tina-merlin-biografia-copertina-del-libro-di-adriana-lotto.jpg  Vajont l'onda lunga COPERTINA ristampa

    Nel segnalare oggi la ristampa di un libro importante come “Vajont, l’onda lunga”  di Lucia Vastano, bisogna anche ricordare che la denuncia degli antecedenti e poi di come sono andate le cose era stata opera di un’altra donna, la giornalista e scrittrice Tina Merlin, alla cui ricerca  farà riferimento l’attore Marco Paolini nella sua ricostruzione televisiva del 1997, il solo momento alto di informazione che ne aveva indicato i termini reali, rimasto da allora un caso unico nel panorama mediatico italiano e non. Dove sono mai i servizi giornalistici e televisivi che abbiamo realmente informato la gente? Una cosa appare oggi certa: le ragioni dell’oscuramento dei fatti stanno nelle scelte economiche e politiche operate dal governo italiano, e non solo negki interessi della società privata SADE che ha gestito il progetto.

    Il lavoro di Lucia Vastano è un contributo fondamentale alla comprensione di quanto è accaduto dopo la tragedia che aveva fatto duemila morti. Il “dopo Vajont” per essere compreso in tutto il suo significato richiede tuttavia la conoscenza esatta di quanto è successo prima e delle ragioni che hanno fatto del progetto della diga sul Vajont ( e della SADE ) un caso esemplare per la gestione di interessi privati attraverso l’uso dello Stato e dello strutture pubbliche. Infatti senza l’interesse alla “nazionalizzazione” dei profitti legati all’ energia (creazione dell’ ENEL ) non sarebbe stato possibile portare fino alle estreme conseguenze la scelta del silenzio su quanto stava succedendo ormai da tempo ( la frana si stava muovendo con modalità inequivocabili ). Proprio questo connubio privato/pubblico ha reso possibile l’incredibile scelta di non dare alcun allarme alla popolazione, e neppure ai tecnici presenti sulla diga. Ma proprio tutto questo, nel dopo Vajont, ha portato al tentativo riuscito di occultare i fatti nei media, minimizzando al massimo le responsabilità politiche durante il boom economico degli anni Sessanta e oltre, facendo di fatto sparire dalla coscienza collettiva la percezione della gravità di quanto accaduto, tanto che oggi a molti il Vajont ricorda ancora solo una “catastrofe naturale” accaduta per fatalità.

    A mio avviso, rileggere il dopo Vajont richiede forzatamente un cambiamento di parametri per interpretare il primo dopoguerra italiano sul piano politico ed economico, con la nascita contemporanea di mass media ( tv in primis ) che hanno letteralmente “costruito” la lettura della realtà offerta al popolo in modo da rendere plausibile una versione “buonista” dei fatti. L’eccezione dello straordinario lavoro di Marco Paolini ( 1997 ) ( costruito sulla ricerca di Tina Merlin, 1983: Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe ) conferma la regola che ha visto immediatamente dopo i fatti le grandi firme del giornalismo italiano come Indro Montanelli e Giorgio Bocca diffondere una interpretazione moralista e falsificante dei fatti, utilizzando a piene mani il discorso sui motivi “politici” di chi denunciava responsabilità precise,e proprio in questo modo occultando nei media i fatti decisivi che stavano a testimoniare la precisa volontà di andare fino in fondo da parte di chi sapeva quale dimensione avessero gli interessi economici in gioco. Proprio con l’uso di un moralismo che utilizzava “cattolicamente” il senso di colpa per un assassinio di massa rimasto impunito, fu costruita la straordinaria truffa del finanziamento con il “fondo Vajont”, utilizzando l’escamotage della vendita delle licenze commerciali delle vittime, abilmente sfruttato da chi aveva capito come fosse così possibile far piovere sull’intero territorio del Nord est una massa enorme di soldi “facili” per finanziare operazioni commerciali le più disparate. Una operazione di “capitalismo straccione” che è all’origine del tanto mediatizzato “miracolo economico del Nord-est”. Come ricorda Lucia Vastano nel suo libro, il fondo Vajont è tuttora attivo, tanto che una quota delle tasse sulla benzina continuano ancora ad alimentarlo. Ecco una storia che andrebbe documentata e ricostruita, per il suo significato simbolico , politico-economico, nell’Italia della prima e della seconda Repubblica.
    Invitando tutti ad acquistare il libro di Lucia Vastano, vorrei richiamare un punto a mio avviso oggi cruciale. Oggi non è più possibile occultare la sequenza dei fatti. È però sempre possibile presentarne una lettura di tipo “scientifico” che, grazie propria ad una ideologia scientista, serva a mettere in secondo piano i motivi pratici degli interessi miliardari strettamente legati alla gestione economica dello Stato italiano uscito dalla guerra. E questo cercando di sminuire ( in quanto “ideologiche”) le argomentazioni di chi ha individuato le cause della tragedia del Vajont in precisi interessi di sfruttamento di risorse dell’energia elettrica, che nell’Italia del boom economico erano diventate strategiche, e totalmente decisive per garantire il nuovo sviluppo industriale. Un tipico esempio di questa lettura credo sia quello che possiamo leggere oggi su Wikipedia alla voce Vajont. Quando Tullio Bugari  sul suo blog ci ricorda , citando Vastano, come è nata la prima decisione dello Stato italiano ( 15 ottobre 1943 ) di autorizzare il progetto Vajont , credo che meriti tutta la nostra attenzione il piccolo dettaglio che il protagonista indiscusso dell’intera vicenda ( il conte Volpi di Misurata , creatore e anima della SADE, la società che gestiva l’intera rete delle dighe idroelettriche del Veneto ), da ministro del governo Mussolini era poi riuscito , dopo essersi rifugiato in Svizzera, a riciclarsi come antifascista con meriti “resistenziali”, restando così in condizione ,nella ricostruzione del dopoguerra, di ottenere il consenso dei governi della DC per il suo progetto del “grande Vajont”. Non una delle tante dighe, ma la madre di tutte le dighe, che avrebbe dovuto garantire la possibilità di fornire energia tutto l’anno, anche quando le acque del Piave erano insufficienti durante l’inverno, proprio attraverso questo nuovo bacino che DOVEVA RACCOGLIERE TUTTE LE ACQUE CHE PROVENIVANO DA TUTTE LE ALTRE CENTRALI IN ATTIVITÀ NEL VENETO ( attraverso una rete di gallerie). Una enorme riserva d’acqua, recuperando dalle altre centrali l’acqua già sfruttata, rendendo così possibile disporre di quel quantitativo d’acqua necessario a produrre nuova e più grande quantità di energia. Ecco perché la stessa altezza della diga era considerata decisiva, ed ecco perché la diga del Vajont doveva essere la più alta al mondo. Un progetto strategico, immaginato fin dagli anni Venti, e reso possibile solo dagli espropri delle terre dei contadini di Erto e Casso nella valle del torrente Vajont. Che è la vicenda ricostruita in dettaglio da un testimone d’eccezione, Tina Merlin, una donna che da giovane aveva fatto la staffetta partigiana, e che caparbiamente aveva documentato dal vivo l’intero percorso preparatorio organizzato tramite la SADE che doveva portare all’ inizio dei lavori.

    Una cosa è certa: la presenza dell’antica frana sul monte Toc era conosciuta e certa, fatto che avrebbe dovuto far considerare suicida il progetto fin dall’ inizio. Comprendere i motivi che hanno portato invece a sottovalutare il pericolo di far scivolare a valle l’enorme massa di materiale, immettendo ai suoi piedi l’acqua del bacino, è proprio quanto ancora resta a mio avviso da capire, se non vogliamo accontentarci di spiegare il fatto con l’ignoranza della geologia e dell’idrogeologia o con il desiderio del profitto a tutti i costi. Personalmente credo che proprio i motivi che avrebbero reso economicamente attrattivo il progetto siano all’origine della decisione di ignorare ed occultare dei dati di fatto . Ma se questo è vero, un’altra lettura dell’avvenimento si rende necessaria, se vogliamo metterci in condizione di trarre finalmente un insegnamento per il futuro da una tragedia che, a tutt’oggi, rimane la più devastante accaduta in Europa occidentale. Dobbiamo partire certo dalla necessità assoluta di mantenere viva la memoria, ma senza dare per scontato di aver ormai spiegato tutto.

    Bruno Strozzi

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    Il nuovo cimitero di Longarone, simbolo di una manipolazione di massa

    operata ai danni dei sopravissuti alla tragedia